la classe 4DL ha vinto il premio per la miglior recensione teatrale
Recensione
Atlas des Kommunismus è uno spettacolo toccante, reale e coinvolgente che immerge lo spettatore nei frammenti della vita di otto persone segnate dalla storia della Germania socialista. Entrato nella sala lo spettatore si trova a dover scegliere in quale scalinata sedersi: infatti la platea risulta divisa in due parti che si fronteggiano l’una all’altra. Il palcoscenico è posto al centro e, anch’esso, è diviso da uno schermo a frangia, che talvolta scende fino a terra, attraverso il quale gli attori hanno la possibilità di passare. La divisione scenica è fondamentale nel coinvolgimento del pubblico, che ha sempre una visione totale, davanti e dietro, indipendentemente dalla presenza dello schermo, alzato e abbassato per l’alternarsi delle scene; quando lo schermo scende, viene proiettato su di esso ciò che accade nella parte opposta del palcoscenico. Gli unici oggetti scenici sono sedie, telecamere, strumenti musicali e attaccapanni da cui i personaggi prendono i vestiti da indossare via via.
Lo spettatore si ritrova in un ambiente intimo, enfatizzato dalle foto proiettate, testimonianze della vita delle persone e dalla disposizione a cerchio delle sedie su cui i personaggi iniziano a raccontarsi. Di forte impatto ipnotico sono le luci intermittenti all’inizio della prima scena che poi cambiano in relazione ai racconti dei personaggi e alla musica che, cantata e suonata dal vivo, intervalla i racconti dei personaggi allentando la tensione.
Atlas viene proposto agli spettatori italiani in lingua originale, il tedesco, supportato dai sottotitoli che ne permettono una buona comprensione scenica e testuale. Lo spettacolo si snoda come raccolta di una serie di interviste sollecitate da una bambina, che con le sue domande dà un ritmo alla narrazione. Il linguaggio quotidiano accentua il carattere autobiografico dei racconti di vita dei narratori che ci mostrano differenti prospettive in relazione alla loro età e ai loro ruoli, cui fa da sfondo comune la storia della Germania socialista dal suo nascere al suo tramonto. È un teatro di realtà, dove spiccano le storie dell’attivista comunista di 83 anni che ha lavorato per la Stasi e poi si è pentita, della traduttrice che perde la sua posizione col crollo del muro e pena per ritrovare un suo ruolo nella società, della donna vietnamita che mostra tutta la fatica dell’immigrazione ieri e oggi, fino alla bambina che non ha avuto nessuna esperienza della Germania socialista ma s’interroga sulla sua eredità, su ciò che rimane.
Il cast dello spettacolo è composto da dieci personaggi di cui otto attori, un musicista ed un servo di scena.
Gli attori esplicitano subito il loro non essere attori, dichiarando le proprie narrazioni come autobiografiche.
Spicca la performance della bambina, Matilda, di dieci anni, che pone ai personaggi le domande che aiutano il pubblico a comprendere le singole esistenze e lo scenario storico di sfondo. E’ un elemento transgenerazionale, collante necessario tra gli spezzoni del passato/presente.
Il cerchio generazionale viene iniziato da Salomea, la donna di ottantadue anni, che legge appunti delle sue memorie e ci permette uno sguardo profondo sul fascino dell’utopia socialista e sulla delusione per il tradimento dei suoi presupposti di felicità.
La scelta di un cast quasi solo femminile esprime bene che non solo gli uomini fanno la storia ma anche l’altra metà del cielo: la polemica contro il maschilismo imperante nella politica è evidente, anche grazie all’unica figura maschile, Touckè, che si dichiara subito omosessuale, schierandosi dalla parte delle donne.
“Mi interessa il confine fra ciò che è reale e ciò che consideriamo come finzione, quel punto dove ci si accorge di stare sul limite”: questo dichiara la regista argentina Lola Arias. Così lo spettacolo si snoda alternando episodi significativi o simbolici dell’esistenza di ognuno dei personaggi, zigzagando nel tempo, confondendo la divisione tra presente e passato e quella tra realtà e finzione.
Il pubblico diviso sui due lati opposti del palcoscenico, diventa parte della divisione della Germania durante gli anni del muro di Berlino, ma è in comunicazione con i personaggi e con gli spettatori al di là del palcoscenico, grazie alle telecamere frontali che lo aiutano a vedere tutte e due le parti, davanti e dietro il “muro” appunto, la cui presenza viene sottolineata dal pannello su cui si proiettano i ricordi. Questa trovata visionaria ci trasmette, meglio di tante parole, il taglio chirurgico operato, con la costruzione del muro, sulla gente di Berlino.
Rubrica di commento
Dalla storia di Solomea, che decide di schierarsi al fianco della Stasi, realizzando poi di aver preso parte alla rovina del sogno utopico di un sistema socialista trasformatosi in uno stato di polizia, fino alla storia di Ruth, punk in lotta contro un sistema che da sempre ha percepito come oppressivo, le vicende dei vari personaggi di Atlas des komunismus, proposte come testimonianze autobiografiche, vengono messe in scena su un palco che divide e spezza il pubblico come un muro.
La forza visiva di questo spettacolo è dirompente, spiazzante: il muro è visibile, nella sua invisibilità, è di fronte ad ognuno di noi. E’ il muro concreto che divideva Berlino tra Est e Ovest, ma anche il muro simbolico di leggi, pregiudizi ed egoismo, come quello di cui parla Helena, quel muro che ai confini della fortezza Europa blocca i migranti in fuga da una situazione di guerra di cui noi stessi dovremmo sentirci colpevoli.
Lo spettacolo riesce a rivolgersi a tutto il pubblico, sia a chi la storia di quegli anni non la conosce e andrà a cercare le risposte ai propri interrogativi, sia a chi, conoscendo la storia, trova un punto di vista umano trasversale per riscoprirla e nuovi spunti per analizzare il presente.
Classe IV DL Istituto Enrico Mattei di San Lazzaro (BO)
(coordinamento prof.ssa Daniela Zani)