Progetto cinema: Garage Olimpo
Garage Olimpo (Italia-Argentina-Francia, 1999)
Garage Olimpo (Italia-Argentina-Francia, 1999)
Regia: Marco Bechis
Sceneggiatura: Marco Bechis, Lara Fremder
Musiche: Jacques Lederlin
Fotografia: Ramiro Civita
Montaggio: Jacopo Quadri
Interpreti principali: Antonella Costa, Carlos Echevarría, Enrique Piñeyro, Pablo Razuk, Chiara Caselli, Dominique Sanda, Paola Bechis, Adrián Fondari, Marcelo Chaparro
98′
Il regista
Marco Bechis (Cile, 1957) figlio di madre cilena di origine svizzero-francese e di padre italiano, è cresciuto a San Paolo e a Buenos Aires.
All’età di vent’anni viene espulso dall’Argentina per motivi politici (non prima di essere stato arrestato dalla polizia del regime, trattenuto in un carcere clandestino dal nome Garage Olimpico e avere vissuto sulla sua propria pelle la condotta del regime al potere) e approda a Milano dove vivrà per buona parte degli anni ’80.
Ha lavorato come maestro elementare a Buenos Aires e, lavorando come fotografo, ha vissuto in Francia e Stati Uniti.
Ha debuttato nella regia nel 1991 con Alambrado (candidatura al Pardo d’oro al festival di Locarno dello stesso anno), dopo avere frequentato la scuola di cinema Albedo di Milano.
Marco Bechis su quanto ci sia di autobiografico nel film:
Solo la colonna sonora. I prigionieri rimanevano bendati, sempre, quindi dei miei sette giorni di sequestro ricordo solo suoni. In qualche modo la colonna sonora del film pre-esisteva alla sceneggiatura che è invece pura finzione, basata su sei interviste che ho fatto a sopravvissuti ai campi di concentramento argentini.
La Trama
Argentina 1978. Maria (Antonella Costa) è una maestra militante di 19 anni che vive con sua madre Diane (l’attrice francese Dominique Sanda) in una bidonville. Le difficoltà economiche hanno indotto Diane ad affittare alcune stanze della casa, una delle quali viene occupata da Félix (Carlos Echeverria), un giovane timido e innamorato di Maria, che dice di non avere famiglia e di lavorare come guardiano notturno in un garage. Una mattina un gruppo armato di poliziotti in borghese sequestra Maria di fronte allo sguardo impotente della madre, conducendola in un campo di concentramento sotterraneo (uno dei trecento che operavano in città) chiamato in codice “Garage Olimpo”. Maria scopre che la persona che si dovrà occupare del suo interrogatorio e della tortura non è altro che Félix, l’affittuario innamorato di lei, il quale tenta di salvarle la vita simulando la sua collaborazione di fronte ai suoi superiori. Ma quando Tigre (Enrique Pineyro), il capo del campo, viene ucciso in un attentato, Maria viene trasferita. E “trasferita” nel gergo militare significava la morte.
Il Commento
Buenos-Aires 1976-82: la vita scorre regolarmente. Normali e trafficati sono i larghi vialoni della città attraverso i quali si muovono le automobili che conducono a casa o al lavoro cittadini di una paese civile; normale e tranquillizzante la programmazione via radio che intrattiene con canzoni ballabili e partite di calcio ascoltatori ignari; bambini nuotano in piscina e vecchietti portano a spasso il cane davanti a locali chiusi al cui interno si svolge in modo normale e professionale il lavoro che militari in borghese o paramilitari dall’aspetto impeccabile compiono quotidianamente: torturare scientificamente (ora si usa la corrente elettrica, i tempi si sono evoluti, è arrivata la civiltà…) e dopo un tempo variabile “regolarizzare” (l’alfabetizzazione della popolazione è ormai un dato di fatto e bisogna adoperare i termini appropriati) i prigionieri politici, gettandoli vivi nell’enorme estuario del Rio de la Plata. Questo è il punto cardine del film di Bechis: la “normalità” di un orrore del tutto ignoto alla popolazione, almeno di quella non coinvolta, di quella che accettava la dittatura militare di Videla, anche perché qualsiasi tentativo di un parente di cercare gli scomparsi o diffondere la notizia delle sparizioni portava sistematicamente alla sua soppressione. Il regista, scampato miracolosamente egli stesso alla morte, poteva raccontare quest’ordinaria follia come un documentario, ma ha preferito dentro quel contesto inserire una storia, una delle 30.000 possibili storie dei desaparecidos, la maggior parte delle quali nessuno potrà mai conoscere: quella di Maria, una ragazza che dietro la facciata di maestrina nelle bidonville, tramava contro il regime all’interno di uno dei tanti gruppi di oppositori; e, questa è la novità rispetto a precedenti film sul genere, quella di uno dei suoi carcerieri, Felix, inquilino presso la famiglia di lei, sconcertante nella sua ordinarietà e insospettabilmente feroce tanto che ucciderà più di un prigioniero forzando i limiti dell’amperaggio che può sopportare un essere umano. La macchina da presa segue impietosamente lo svolgersi della tragica vicenda di Maria, dall’arresto alla deportazione nell’ex garage che le farà da carcere, dalle torture a base di scariche elettriche tali da provocarle un arresto cardiaco alla cattura e morte del complice di cui è stata costretta a “fare il nome”, la prigionia a tempo indeterminato in una piccola cella sporca e buia, in attesa del nulla e nella speranza che qualcuno possa spararle un colpo in fronte per porre fine a quell’incubo. Ma col passare del tempo Maria instaura un rapporto sempre più stretto con il carceriere suo conoscente Felix il quale, peraltro inconsapevole dell’orrore cui è complice e tutt’altro che colto da crisi di coscienza, cerca in tutti i modi di alleviarne la sofferenza, anche a rischio della vita oltre che del lavoro. Ne scaturisce una delle più affascinanti storie d'”amore?” viste negli ultimi anni che fuorvia intenzionalmente lo spettatore dando l’impressione si tratti del solito prevedibile “complesso di Stoccolma” in cui la rapita si innamora del suo carceriere, ma che poi si evolve nella direzione opposta senza tuttavia scadere in banalità o prendere il sopravvento sul tema principale del film. Incastrate perfettamente nel meccanismo narrativo appaiono le due storie parallele: la disperata ricerca della figlia da parte della madre che si concluderà in un’esecuzione di una crudezza indimenticabile; e le due scene temporalmente sequenziali ma che vengono abilmente proposte come prologo e pre-epilogo del film, di grandissimo impatto emotivo, nelle quali il segnale di un cambiamento viene rappresentato dal ruolo di Ana (interpretato intensamente da Chiara Caselli) che mettendo una bomba sotto il letto di un alto ufficiale padre di un’amica, simbolicamente mina “alla base” le fondamenta della dittatura. “Garage Olimpo” finisce come comincia, con delle suggestive sfocate riprese in teleobiettivo delle increspature del Mar della Plata che ora può finalmente condividere il suo terribile segreto con il mondo. Bechis, con questo film, sceglie la via del contrasto tra una sceneggiatura che predilige il tono crudo-realistico se non addirittura documentaristico (specialmente nei dialoghi compassati, ordinari, “normali” nel garage e negli effetti sonori in presa diretta) e la resa visiva costituita da immagini tutt’altro che realistiche, a dir poco visionarie soprattutto negli ambienti del garage, tali da infondere orrore ma prive comunque di quegli eccessi che avrebbero snaturato l’intento naturalistico dell’autore: quello di sbatterci in faccia il dramma dei desaparecidos senza appellarsi né alla violenza dell’azione (noi spettatori non assistiamo mai alla tortura, vediamo il prima o il dopo…e l’unico momento di violenza mostrata è l’esecuzione della madre di Maria, smorzata però dalla panoramica) né a un ricatto morale nei confronti del pubblico portato attraverso sentimentalismi o facili retoriche. “ordinarietà” dei “mostri”) di Carlos Echevarria, possiamo ben annoverare “Garage Olimpo” tra i più incisivi e rigorosi film di denuncia.
Anche se il regista porta sulla pellicola molte esperienze personali (tra l’altro era insegnante anche lui): il garage Olimpo è uno dei 365 centri clandestini di tortura dei desaparecidos, il regista più che alla ricostruzione storica, punta all’attualizzazione della violenza dello stato contro i cittadini.
Sul set il regista ha voluto dei sopravvissuti, madri e figli di desaparecidos, che hanno contribuito a dare un’impronta particolare al film; in alcune scene gli attori hanno anche indossato vestiti appartenuti a desaparecidos facendo sentire sull’attore una forte responsabilità. Inoltre Bechis ha preferito che gli attori non leggessero tutta la sceneggiatura, ma si concentrassero su ogni singola parte per fare in modo che conoscessero solo quello che era accaduto prima, come succede nella vita reale.
Egli filma molte sequenze aeree, come per dare uno sguardo che allontana dalla claustrofobia della cella, per dimostrare che, da lontano, tutto sembra normale, la violenza è sotterranea. Il suo è un magnifico patchwork narrativo (il misterioso prologo, ad esempio, verrà ripreso solo alla fine) in cui i brani sparsi sono da ricongiungere; la violenza mostrata porta la nausea più che l’indignazione, perché Bechis sceglie di mostrare, non stigmatizzare faziosamente. La fotografia, a tratti sgranata, ci fa sentire come spettatori di immagini carpite di nascosto. Più che rappresentata, la violenza è quasi sempre lasciata fuori campo o mostrata attraverso sfocate immagini video. Di essa viene descritto l’orrido grigiore di burocratica routine e viene sottolineato visivamente, con le riprese aeree della città, il contrasto tra la sua sotterranea presenza e la normalità della vita urbana. Scegliendo di lasciare la tortura fuori dalla porta del visibile, il regista italo-argentino dipinge un quadro se possibile ancora più livido, dolente e disperato che fa riferimento all’Argentina, come attesta l’ultima agghiacciante didascalia, per denunciare invero il meccanismo sotteso a tutti gli orrori militari rimossi o dimenticati degli ultimi decenni.
Il linguaggio cinematografico di Bechis, che non si esaurisce nel solo documento, potrebbe essere accostato a quello dell’argentino Fernando Solanas, che unisce politica e poesia: luci iperrealistiche, note gravi di uno straziante violoncello in sottofondo, caotica (durante il sequestro della maestra) macchina da presa a mano. Ma anche ad Haneke, che studia la violenza lasciandola fuori campo (anche se qui sappiamo che, purtroppo, le cose non-mostrate sono accadute veramente): ci rende prigionieri dell’immaginazione, non imprigiona il nostro sguardo, mentre la crudeltà si fa strada anche nell’indifferenza generale, nel tema inatteso del rapporto d’amore sadico (con Sindrome di Stoccolma) fra carnefice e vittima.
La “Guerra Sporca” e la dittatura
La guerriglia prima del colpo di Stato
Per sette anni, dal 1976 al 1983, l’Argentina ebbe una dittatura militare sanguinaria e violenta che suscitò orrore e disprezzo nel mondo a causa della sistematica violazione dei diritti politici e, soprattutto, umani. La Junta (questo era il nome della dittatura) portò alla sparizione di oltre 30mila persone invise al governo, i cosiddetti desaparecidos.
Senza dubbio sul Paese pesava il fatto di aver subito la suddivisione del Mondo in due blocchi contrapposti: l’Argentina rientrava nei Paesi “terzomondisti”, in altre parole i Paesi non allineati, restando in ogni caso nell’orbita di preferenza americana. Il leader indiscusso del periodo post bellico fu senza dubbio il colonnello Juan Domingo Peron.
L’Argentina tra il 1946 e il 1955, e dal 1973 al 1974, potè godere della forza politica del peronismo, il movimento politico creato dallo stesso Peron nel 1943, che si poneva come “terza via” tra capitalismo e socialismo, unendo però a sé entrambe le politiche, farcite da ideologie patriottiche, corporativiste, populiste e socialnazionalistiche.
Dalla destituzione di Peron nel 1955 alla rielezione nell’estate 1973, il Paese ebbe oltre una decina di militari tutti andati al potere con colpi di Stato.
Alla morte di Peròn, avvenuta il 1º luglio 1974, di Juan Domingo Perón, in un quadro di estrema instabilità politica, la presidenza del paese fu assunta dalla moglie Isabel Martínez de Perón, la quale nominò come Segretario di Stato José López Rega, appartenente all’ala conservatrice del partito e per questo inviso alla sinistra peronista che, attraverso il suo braccio clandestino armato Montoneros, riprese un’attività di guerriglia contro il Governo federale caratterizzata da un elevato numero di attentati e omicidi.
Parallelamente si accentuò anche l’attività dell’Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP), un gruppo di ispirazione trotskista. La situazione dell’ordine pubblico dell’Argentina si deteriorò ulteriormente anche a causa del sorgere del terrorismo di estrema destra delle squadre della Alianza Anticomunista Argentina (AAA), una formazione paramilitare organizzata e diretta dallo stesso Rega con il sostegno occulto anche delle forze armate che fu responsabile di numerosi assassinii di militanti di sinistra, sindacalisti e peronisti di sinistra.. Finanziata grazie agli investimenti che il suo fondatore le girava, invece di destinarli al ministero di propria competenza, l’AAA perseguiva lo scopo di portare il Paese in un clima di instabilità politica e civile, dando il là ad un golpe militare
Il continuo aumento delle violenze dei gruppi estremisti di destra e sinistra contribuì quindi a creare nel paese un clima di terrore che portò nel novembre del 1974 alla proclamazione dello stato d’assedio con le dimissioni, nel luglio del 1975, dello stesso Rega dalla sua carica a seguito dell’accusa di avere ispirato le azioni della AAA.
Il quadro di crescente instabilità indusse soprattutto la presidentessa Isabelita a accentuare le disposizioni antiterrorismo; in realtà le prime misure repressive eccezionali e la decisione di impiegare le forze armate per la lotta contro la “sovversione” montoneros o marxista furono prese già durante il governo costituzionale presieduto dalla vedova di Perón. Venne quindi stabilita la procedura straordinaria dell’arresto e detenzione “a disposizione del potere esecutivo” che permetteva al governo di decidere autonomamente senza procedure legali la sorte degli arrestati. Isabelita inoltre affidò espressamente alle forze armate il compito di “annientare la guerriglia” con qualunque mezzo e senza preoccupazioni di tipo normativo legale.
Alla fine del 1975 la situazione dell’ordine pubblico in Argentina sembrò degenerare irreversibilmente verso il caos e la guerra civile.
Alla vigilia del colpo di Stato militare l’Argentina sembrava quindi in una situazione di reale guerra civile e le élite economiche e politiche apparentemente temevano una “vittoria della sovversione” ma in realtà già alla fine del 1975 i movimenti guerriglieri, in apparenza in fase di ulteriore crescita, erano già in crisi sotto i colpi della repressione delle forze armate e a causa del declinare dei movimenti di protesta e del consenso sociale verso le istanze rivoluzionarie
I dirigenti più importanti dell’ERP e dei Montoneros non sembrarono comprendere la realtà della situazione e il pericolo di un nuovo ritorno al potere dei militari; al contrario ritennero che il possibile colpo di Stato, considerato all’inizio del 1976 imminente e inevitabile, avrebbe favorito a lungo termine l’evoluzione rivoluzionaria, accentuando ancor più il contrasto sociale e spingendo le masse ad unirsi alle avanguardie guerrigliere contro il potere militare. I capi dei gruppi di lotta armata non compresero invece che la società argentina era profondamente turbata dalle violenze delle due parti, delusa dalle istanze rivoluzionarie e pronta a ritirarsi dall’impegno politico e a delegare l’esercizio del potere alle forze armate che sembravano l’unica struttura della nazione sufficientemente solida e coesa in grado di fronteggiare il caos sociale ed economico.
La pianificazione
«Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi.» |
(Dichiarazione del generale Ibérico Saint-Jean, governatore de facto della provincia di Buenos Aires durante gli anni della dittatura]) |
«Solo Dio toglie la vita. Ma Dio è occupato altrove, e siamo noi a doverci occupare di questo compito in Argentina.» |
(Dichiarazione del generale Ramón Camps, capo della Polizia Federale durante gli anni della dittatura]) |
Isabelita Perón cercò fino all’ultimo di evitare l’intervento dei militari preannunciato dai minacciosi avvertimenti dei capi militari, ma la presidentessa era priva di qualità politiche e non riuscì ad evitare un’evoluzione rovinosa dell’economia argentina e dell’ordine pubblico. Tra febbraio e marzo 1976 l’inflazione salì al 566% annuo; le riserve finanziarie erano esaurite; fallirono tentativi di formare un governo d’emergenza o di indire elezioni straordinarie. In realtà molte forze sociali e politiche argentine consideravano con favore l’assunzione del potere dei militari; forti appoggi alle forze armate giunsero dalla borghesia industriale e finanziaria, dalle alte gerarchie della Chiesa cattolica ma anche da alcuni politici ed esponenti sindacali.
Il colpo di Stato delle forze armate avvenne nella notte del 24 marzo 1976 e in pratica non incontrò alcuna opposizione. Venne diramato un comunicato in cui una Giunta militare (Junta de comandantes) formata dai tre capi di stato maggiore, generale Jorge Rafael Videla, per l’esercito, ammiraglio Emilio Eduardo Massera per la marina, e Orlando Ramón Agosti per la forza aerea, dichiarava di aver assunto il potere; altri due comunicati illustravano gli obiettivi del nuovo regime, i regolamenti esecutivi e le altre organizzazioni della nuova struttura istituzionale[16]. Accanto alla giunta furono costituiti un governo, il cosiddetto PEN (Podere Ejecutivo Nacional) e una commissione di consulenza legislativa (CAL, Comision de Asesoramiento Legislativo); il 29 marzo 1976 il generale Videla divenne il presidente del PEN e quindi de facto la massima autorità del nuovo regime argentino. Le forze armate assunsero un ruolo dominante all’interno delle nuove strutture del regime; la CAL fu formata da nove militari scelti in parti uguali dalle tre armi; tutti i ministri del PEN furono membri delle forze armate, tranne i ministeri dell’Economia e dell’Educazione che furono lasciati a due civili[17].
I poteri della giunta erano estremamente vasti; essa nominava all’unanimità il presidente che sarebbe rimasto in carica per soli tre anni e avrebbe dovuto essere scelto tra gli alti ufficiali non più in servizio attivo; inoltre i tre membri detenevano il comando delle forze armate, il potere di dichiarare guerra; erano responsabili della formazione della Corte suprema i cui giudici furono tutti immediatamente sostituiti. La nomina di ministri, giudici ordinari, governatori e amministratori era ugualmente soggetta all’approvazione e al controllo della giunta. Caratteristiche fondamentali del sistema di potere del regime militare furono l’estesa militarizzazione delle cariche pubbliche e soprattutto la rivalità tra le tre forze armate e tra i più ambiziosi e influenti alti ufficiali. La nomina di militari ai vertici delle istituzioni pubbliche riguardò oltre ai ministeri e alla Corte suprema, anche le telecomunicazioni, le forze di polizia, sindacati, mutue, organizzazioni industriali, imprese statali, organismi ad hoc come l’ente preposto all’organizzazione dei Mondiali di calcio previsti nel 1978, tutte le province; le cariche vennero spartite equamente tra le tre forze armate.
La giunta militare e gli alti ufficiali incaricati dei più importanti comandi territoriali cercarono di mostrare fin dai primi giorni del colpo di Stato, coesione, disciplina e una perfetta efficienza organizzativa e realizzativa; si cercò di evidenziare inoltre l’apparente assenza di ambizioni personali; le cariche sarebbero state ruotate ogni tre anni mentre il presidente de facto sarebbe stato scelto al di fuori dei membri della giunta e non avrebbe dovuto detenere incarichi di comando attivi. La realtà della nuova struttura di potere era molto diversa dalle apparenze descritte dalla propaganda del regime; le rivalità tra le tre forze armate fu costante fin dall’inizio; ci furono contrasti accesi soprattutto riguardo alle decisioni di politica economica richieste dalla critica situazione argentina. L’ammiraglio Massera, personalità ambiziosa e priva di scrupoli, iniziò subito una lotta di potere per soppiantare il generale Videla e l’esercito; la mediocrità e lo scarso carisma del presidente sembravano favorire gli ambiziosi programmi personalistici dell’ammiraglio.
In effetti i tre membri della giunta e gli alti ufficiali delle forze armate si trovarono perfettamente d’accordo all’inizio soprattutto riguardo alle decisioni da prendere e ai metodi da attuare per vincere la cosiddetta “guerra contro la sovversione”; in questo campo, ritenuto decisivo per la conservazione del potere, i militari agirono rapidamente e brutalmente, dando prova di una spietata ed inumana efficienza fin dall’inizio e dimostrarono la loro assoluta determinazione a schiacciare gli oppositori, reali o presunti, con ogni mezzo.
La guerra sucia
Dal momento del colpo di stato, iniziò anche la “guera sucia”, la “guerra sporca”, un conflitto non armato che i militari intrapresero contro tutti coloro che non erano affini alle politiche governative, subendo sequestri, violenze, torture e morte, poiché considerati nemici del Paese.
Questa operazione di “pulizia” rientrava, insieme all’alleanza strategica tra i servizi segreti argentini con gli omologhi cileni ed americani (DINA e CIA), nella cosiddetta “operazione Condor”, onde evitare il proliferare di governi di sinistra filo-marxista in un’area, quella Sudamericana, da sempre sotto protezione americana (in base alla “dottrina Monroe”), il cosiddetto “giardino di casa”, per evitare che a tutto il subcontinente toccasse la stessa fine del Cile nel novembre 1970, quando fu eletto Capo dello Stato il socialista Salvador Allende, destituito l’11 settembre 1973 dal golpe del generale Augusto Pinochet, coadiuvato dalla CIA. Esperienze come queste potevano estendersi piano piano anche a tutti gli altri Paesi latini, come accadde con l”effetto domino” asiatico.
Naturalmente, il pericolo comunista era solo uno slogan, poiché il Partito Comunista argentino aveva un peso molto irrilevante e l’unica “sinistra” ufficiale nel Paese era espressa dagli esponenti di sinistra del peronismo stesso.
Immediatamente dopo l’insediamento della Giunta furono sospese le libertà civili e sindacali e la repressione fu diretta principalmente verso i militanti del movimento montonero e verso i radicali, ma lo stesso rigore fu attuato verso gli appartenenti all’ERP, verso i peronisti e verso i guerriglieri trozkisti. Il Partito Comunista, allineato a Mosca, appoggiò il governo militare.
Lo stampo intrapreso dai militari argentini fu autoritario, anticomunista, nazionalista, patriottico e rivolto al recupero del tradizionalismo cattolico, tanto da coinvolgere anche alcuni esponenti locali della Chiesa nelle nefandezze di Videla e soci.
Dal punto di vista economico, si sviluppò un forte liberismo che aprì le braccia agli investitori esteri, i quali trovarono in Buenos Aires una gallina dalle uova d’oro da spennare, l’inflazione subì una decisa impennata (tra il marzo 1975 e il marzo 1976 arrivò al 566%), il deficit pubblico in poco tempo aumentò in maniera molto rapida (12% del PIL) e le riserve del Paese andavano esaurendosi. Furono aboliti gli scioperi e gli stipendi furono bloccati.
Dal punto di vista della politica interna si diede una netta forza alla negazione della libertà e dei diritti di tutte quelle persone che potevano creare dei problemi all’ordine del Paese, arrivando allo scioglimento del Parlamento, sminuendo la forza dei partiti politici, imponendo la censura sugli organi di informazione sulla falsa riga del fascismo.
Il Golpe cileno del 1973 aveva fornito alla stampa ed all’opinione pubblica mondiale le immagini del bombardamento aereo del Palacio de La Moneda, con la morte del presidente Salvador Allende, e la prigionia dei dissidenti nello stadio di Santiago del Cile; tali immagini avevano fatto il giro del mondo sollevando l’indignazione e l’interessamento delle associazioni per la difesa dei diritti umani che da quel momento si sarebbero mobilitate attivamente in merito alle diverse situazioni che sarebbero venute in essere in Sud America ed in America centrale negli anni successivi.
La Giunta militare argentina, traendo esperienza da quanto avvenuto in Cile, intese intraprendere la propria attività di repressione all’impronta della segretezza; tale intendimento si fondava su diversi ordini di ragioni: da un lato l’immagine che il paese doveva fornire all’estero, anche e soprattutto in previsione del campionato mondiale di calcio che si sarebbe svolto in Argentina due anni dopo, e dall’altro l’ondata di terrore che si sarebbe abbattuta sugli oppositori e sui dissidenti se nessuno fosse stato in grado di fornire notizie in merito alle persone arrestate o sequestrate.
Una particolarità rispetto al Cile è che il golpe in Argentina avvenne di notte e tutto in silenzio, senza portare i carri armati nelle piazze, bombardare la sede presidenziale o internando gli oppositori negli stadi.
In realtà il piano repressivo perseguito dalla giunta militare era molto più esteso e radicale; le misure detentive legali erano solo una facciata esteriore, l’apparato della repressione incaricato di “annientare la sovversione” divenne completamente illegale, clandestino e basato sul sistema del sequestro dei presunti “delinquenti sovversivi” o simpatizzanti, sulla detenzione in strutture segrete delle forze armate o della polizia, sul sistematico impiego della tortura per estorcere informazioni grazie alle quali sarebbe stato possibile estendere ulteriormente l’azione “anti-sovversiva”, sull’uccisione finale dei sequestrati[. Il sistema dei sequestri illegali e della detenzione in segreto non ebbe propriamente inizio dopo il colpo di Stato; durante il governo costituzionale c’erano già stati oltre 500 “scomparsi” (desaparecidos), ma con l’inizio del Proceso il piano di annientamento dell’opposizione, reale o presunta, divenne sistematico e particolarmente brutale configurandosi come un reale sistema di terrorismo di Stato. L’obiettivo del regime era estremamente radicale: sarebbero dovute essere eliminate “tutte le persone che si fosse ritenuto necessario”. che, nonostante le apparenze, erano già in grande difficoltà organizzativa e politica.
I sequestri dei sospetti avvenivano solitamente di notte ma non mancavano arresti durante il giorno, in particolare quelli attuati sulle persone sorvegliate che usavano spostarsi frequentemente, rendendo maggiormente difficile il loro reperimento durante le ore notturne; la procedura consisteva solitamente nel trasporto delle persone catturate in centri di detenzione clandestini.
Per colpire gli obiettivi selezionati il metodo era quasi sempre lo stesso: di notte, a bordo d’una Ford Falcon in dotazione alla polizia, 5 o 6 uomini si presentavano a casa della vittima – che invece di giorno veniva prelevata per strada, sul posto di lavoro o di studio – la incappucciavano, la sequestravano e la conducevano verso uno dei molti centri di detenzione clandestina allestiti dalle forze armate: tra questi, più tristemente noti divengono a Buenos Aires il Campo de Mayo e la Escuela de Mecanica de l’armada (ESMA), capeggiata dall’ammiraglio Emilio Massera, il più grande centro dove transitarono oltre 5mila persone che dal marzo 2004 è diventato il “luogo della memoria”, in ricordo delle vittime e monito per la cultura dei diritti umani non solo in Argentina, ma anche nel resto del Mondo. Qui gli arrestati subivano ogni tipo di sevizia – la peggiore era la picaña, la tortura tramite scariche elettriche – e infine partivano per il volo: imbarcati su aerei, venivano sedati, condotti sull’oceano e, una volta denudati, gettati a mare dai portelloni. Chi non era gettato in mare, era ucciso e seppellito nella terra in maniera segreta o in fosse comuni o sotto lapidi anonime con inciso “N.N.”.
È la sorte dei desaparecidos, circa 30 mila persone – operai (il 30%), studenti (il 21%), impiegati (il 18%), docenti (oltre il 5%), giornalisti (oltre l’1,5%), due terzi dei quali hanno tra i 16 e i 30 anni – che scompaiono senza lasciar traccia di sé.
L’escalation della repressione portò, nei periodi successivi, a colpire non solo attivisti politici o dissidenti dichiarati del regime ma anche chi avesse semplicemente, anche in modo indiretto, simpatizzato per una qualsiasi associazione a carattere sociale, umanitaria o studentesca e di conseguenza a “scomparire” furono anche persone che di fatto non erano state coinvolte in alcun modo in attività contrarie al regime.
In seguito alle sparizioni i parenti degli scomparsi non venivano informati della sorte dei loro congiunti e molto spesso, nei commissariati di polizia, essi non figuravano nemmeno come arrestati; questa procedura consentiva una larghissima libertà di azione in merito alla vita delle persone detenute e, grazie all’estrema segretezza delle operazioni, fu possibile anche la scomparsa e l’omicidio di cittadini stranieri come la diciassettenne svedese Dagmar Hagelin, deceduta alla ESMA probabilmente nel 1977.
Le vittime di questa ondata di morte furono riconosciute solo a seguito della dichiarazione di morte presunta, ottenuta dalle Madri di Plaza de Mayo, con l’appoggio dei movimenti per i diritti umani, tra i quali Amnesty International, nel 1983[30], che consentì, due anni dopo, l’apertura di procedimenti penali nei confronti degli appartenenti alla Giunta militare. Nel 1977 venne fondata anche l’associazione Nonne di Plaza de Mayo, finalizzata a localizzare e restituire alle famiglie legittime tutti i bambini sequestrati dopo aver ucciso e fatto sparire le madri.
Le torture
Durante il periodo della guerra sporca l’uso sistematico della tortura venne costantemente applicato nei commissariati di polizia, nelle carceri e nei centri di detenzione illegali.
Secondo i dati forniti dopo la fine della dittatura dalle persone che avevano subito tale trattamento, unite a quelle incaricate di attuarle, i soldati delegati ad utilizzare tali sistemi applicavano i seguenti supplizi:
- Scariche elettriche ad alto voltaggio, specialmente nelle parti delicate del corpo (genitali, capezzoli, orecchie, gengive).
- Ustioni tramite sigarette oppure piccoli lanciafiamme(con fiamme lunghe circa 30 centimetri).
- Rottura di alcune ossa del corpo, in genere piedi o mani.
- Ferimento dei piedi con spille od oggetti appuntiti.
- Pestaggio a sangue delle vittime (in caso non si volessero lasciare segni evidenti, venivano utilizzati sacchetti di sabbia).
- Immersione del viso in escrementi fino al soffocamento.
- I torturati venivano appesi a testa in giù per un tempo indefinito.
- Torture eseguite alla vista dei parenti, unite a stupri e pestaggi.
Accanto alle torture di carattere fisico venivano applicate alle persone sottoposte a custodia anche tecniche coercitive di natura psicologica quali lunghi periodi di detenzione costantemente bendati ed inconsapevolezza della sorte.
Decine di migliaia di persone, di tutte le età, patirono enormi sofferenze nei centri di detenzione clandestina e molte di esse morirono ed è da rilevare come l’istruzione e l’addestramento dei soldati addetti, in modo specifico, alle torture, provenne da elementi in passato già coinvolti in pratiche similari quali ex nazisti e militari o mercenari francesi, adusi alla tortura durante la guerra d’Algeria.
Le madri di Plaza de Mayo
Il 30 aprile 1977 per la prima volta 14 donne “ingenue, vecchie e molto addolorate” scendono nella Plaza de Mayo di Buenos Aires a chiedere ragione della sparizione dei loro figli; la polizia, chiamandole locas (pazze), tenta di sloggiarle intimando loro di “camminare”. Così, camminando attorno alla piazza, inizia la lunga marcia delle Madres dei desaparecidos davanti alla Casa Rosada, sede della presidenza argentina. Una marcia attorno all’obelisco simbolo di Buenos Aires con il capo coperto da un fazzoletto bianco e in mano le foto e le immagini dei cari scomparsi.
Una marcia che non si arresta neanche di fronte alla dura repressione militare che uccide Azucena Villaflor, la fondatrice del movimento. Le Madri non si danno per vinte e ogni giovedì scendono sempre in piazza noncuranti delle manganellate e degli arresti della polizia che cerca ogni volta di disperderle invocando le norme sullo stato d’assedio che proibiscono gli assembramenti non autorizzati.
Questa forma di protesta venne considerata pericolosa dalla Giunta ed anche nei confronti delle madri di Plaza de Mayo furono effettuate forme di repressione ed alcune delle fondatrici, Azucena Villaflor, Esther Ballestrino e María Ponce, furono sequestrate l’8 ed il 10 dicembre 1977, rinchiuse all’ESMA ed uccise facendole precipitare in mare da uno dei voli della morte; si stima che il numero delle donne di Plaza de Mayo uccise sia di 720.
Ma le madri non sono sole. Il 5 agosto 1978, giorno dedicato all’infanzia, due giornali pubblicano un appello. E’ quello delle Abuelas (Nonne) di Piazza de Mayo, ed è rivolto alle “coscienze e ai cuori delle persone che detengono i nipotini scomparsi, o li hanno adottati, o sanno dove trovarli”. Anche le nonne come le madri urlano con forza che i piccoli scomparsi dopo il golpe devono tornare alle famiglie legittime; è orribile che i bambini vengano cresciuti dalle stesse famiglie che hanno torturato e trucidato i loro genitori legittimi. Ma anche le nonne si scontrano contro il muro di gomma dei tribunali e dei militari che reagiscono ricordando che i loro figli erano degli “assassini” e quindi non hanno il diritto di allevare i propri nipoti perché li trasformerebbero ugualmente in criminali accaniti.
La protesta durerà fino al 1982, poi scoppiò la guerra per il possesso delle isole Malvinas e a partire dal 1983, con il ritorno della democrazia, poterono avere qualche notizia in più sulla sorte dei loro figli. Notizie di morte, ma almeno riuscirono a sapere la sorte ad essi toccata, riuscendo a portare i Generali davanti ad un tribunale a partire dal 1985.
Dal 1989 è Estela Carlotto la presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo. Sua figlia Laura poco prima di venire uccisa le ha rivelato di avere partorito uno splendido bambino che avrebbe voluto chiamare Guido. Riportiamo di seguito alcuni passi della commovente lettera che Estela Carlotto ha inviato al nipote, mai conosciuto, al momento del suo diciottesimo compleanno:
“Caro Guido,
oggi che compi diciotto anni, voglio raccontarti cose che non sai ed esprimerti sentimenti che non conosci. I tuoi nonni appartengono a quella generazione che attribuisce a ogni data un valore speciale e particolare. La nascita di un nipote è una di queste date (…). Oggi stai festeggiando i tuoi diciotto anni sotto un altro nome, accanto a un uomo e una donna che non sono tuo padre e tua madre, ma i tuoi ladroni. Loro neppure immaginano che la tua mente custodisce le ninne nanne e le canzoncine che Laura ti sussurrava, sola nella prigione, mentre tu ti muovevi nel suo ventre. Un giorno ti sveglierai, scoprendo quanto tua mamma ti amò e come tutti noi ti vogliamo bene. (…). Ti sveglierai un giorno da questo incubo, nipote mio, e sarai libero.Con tanto amore, nonna Estela”
Ma anche i figli non dimenticano e si è infatti costituito il gruppo “Hijos” che riunisce molti di quei ragazzi che hanno da poco scoperto la loro vera identità. Attraverso esami del DNA e ricerche accurate e approfondite cercano di rintracciare fratelli e sorelle spariti, cercando di smascherare le famiglie di quei militari che hanno dei figli pur essendo le donne geneticamente sterili. Un bell’esempio di queste indagini ce lo fornisce Marco Bechis nel suo film “Hijos” nel quale una ragazza argentina cerca di rintracciare il presunto fratello rubato e affidato a una famiglia di militari.
L’Europa e l’America
L’atteggiamento della Giunta militare argentina non impedì tuttavia il progressivo trapelare delle notizie in merito alla repressione delle proteste e della inspiegabile scomparsa di oppositori o dissidenti, così come furono progressivamente identificate le responsabilità non soltanto “passive”, ossia il non opporsi politicamente al regime, ma anche “attive” di paesi stranieri, quali principalmente gli Stati Uniti e la Francia, con la materiale partecipazione, attraverso l’attività di intelligence, di istruzione e di finanziamento del golpe.
Tale attività fu sostanzialmente condotta dalla C.I.A. e dal governo degli Stati Uniti in quella che, in merito all’area centro e sud americana, fu denominata Operazione Condor; è da rilevare inoltre che, per interessi non politici ma economici, la stessa U.R.S.S. non si impegnò contro la dittatura in quanto bisognosa del grano argentino e quindi obbligata a non compromettere i propri rapporti politici e diplomatici con l’Argentina
«È stata una guerra giusta, come diceva San Tommaso, una guerra difensiva. Non una guerra sporca», spiegava l’ex dittatore Jorge Rafael Videla in un’intervista recente. Una guerra finanziata da una parte dagli Stati Uniti di Kissinger, che diedero molti soldi alle organizzazioni paramilitari di destra per rovesciare il governo peronista a favore della giunta militare, con la quale ebbero sempre ottimi rapporti economici. E coperta dall’altra perfino dal castrismo di Cuba, secondo le dichiarazioni choc, nel 2011, rilasciate per la prima volta da un nipote di Guevara, Martín: la complicità tra Fidel Castro e Videla derivava dal fatto che fu la Giunta militare argentina a rompere il boicottaggio che gli Usa imposero al blocco sovietico, dopo l’invasione in Afghanistan, fornendo a Mosca un apporto alimentare.
Così Cuba non solo rimase zitta davanti ai crimini del governo Videla, ma diede appoggio diplomatico alla dittatura nei forum internazionali, per evitare che l’Argentina fosse condannata per violazione dei diritti umani.
La fine della dittatura
La dittatura militare argentina continuò a mietere vittime fino al 1982 quando il regime, tartassato da un’inflazione al 430% e da un calo dei salari del 32%, si lanciò nella disperata Guerra delle Falkland contro il Regno Unito (2 aprile-14 giugno 1982 con 632 vittime).
Il presidente Galtieri, facendosi paladino della realizzazione delle tematiche nazionaliste tanto care ai militari, decide di occupare le isole “Malvinas” (Falkland), una serie di isolotti posti a poche centinaia di chilometri dalle coste argentine di scarsissima importanza geopolitica e militare, da sempre reclamato dall’Argentina ma da 150 anni di proprietà degli Inglesi.
L’invasione venne bocciata anche dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’esercito argentino era dotato di una forza militare importante ma obsoleta, mentre Londra non pensava di affrontare una guerra così distante dall’Europa, ma era troppo forte la voglia di riprendersi queste piccole isole.
Nata come guerra lampo e in pratica vinta, questa fu un boomerang per i militari, poiché l’Inghilterra non volle perdere il primato sulle isole e mandò nell’Atlantico del Sud una forte task force (100 navi e 20mila uomini) e vinse la guerra a mani basse, ritornando una potenza coloniale, mentre l’Argentina commise un forte errore di sottovalutazione dello sfidante credendo che gli Stati Uniti sarebbero stati neutrali mentre invece appoggiarono il governo Thatcher, ipotizzando di far governare l’isola da un direttorio anglo-argentino.
Per l’Argentina si profilò la fine perché il dissenso interno aumentò e la Giunta di Galtieri il 18 giugno si dimise, Alfredo Saint-Jean assunse l’interim fino alla nomina dell’ultimo dittatore, Reynaldo Bignone, il quale capì che l’epoca dei Militari era terminata e non gli rimase che indire le prime elezioni democratiche il 30 ottobre 1983. Con Galtieri oltre ai 700 militari argentini morti nella guerra delle Falklands, sparirono oltre novemila oppositori.
Bignone, responsabile del “Campito”, un altro campo di detenzione clandestino, decise in compenso di distruggere tutte le documentazioni sui desaparecidos e decretò un indulto che esonerava i militari dalla responsabilità per gli atti compiuti durante la dittatura.
Il 6 dicembre 1983 la Giunta si dimise ed il 10 successivo Raul Ricardo Alfonsin, vincitore delle elezioni con oltre il52% dei consensi, si insediò alla Casa Rosada, ponendo così fine alla dittatura durata sette anni.e iniziando il lungo percorso per ripristinare la democrazia e uscire dal tracollo economico.
La cultura
Cinema e musica.
Documenti angosciosi del nostro tempo, molti film e molte canzoni denunciano senza indulgenze le crudeltà della tragedia dei desaparecidos, dando voce e cassa di risonanza ad un grido di dolore che non può essere dimenticato.
Nel campo cinematografico ricordiamo il bellissimo e drammatico film di Hector Olivera “La notte delle matite spezzate” (1986) che, ispirandosi a fatti e persone reali, descrive gli arresti, la segregazione e le torture subite da un gruppo di giovani studenti. I fatti si svolgono a La Plata e la notte degli arresti (settembre 1976) verrà appunto ricordata come la notte delle matite spezzate per ironizzare cinicamente sul corso di studi artistici che stavano seguendo questi ragazzi che mai verranno restituiti alle loro famiglie. L’unica loro colpa è stata quella di avere richiesto il tesserino liceale in modo da avere prezzi ragionevoli sul caro libri e sull’uso dei mezzi pubblici, ma per i militari è abbastanza per fare scattare la repressione. Il film descrive l’arresto e le torture subite in particolare da sette studenti; le scene girate in carcere sono crude e realistiche con la macchina da presa rasente a muri scrostati e umidi e carrellate continue lungo le sbarre che simbolicamente sembrano testimoniare come l’intera Argentina sia incarcerata. Continui sono gli zoom sui lucchetti delle celle che immobilizzano una generazione il cui unico movimento è ridotto alle voci sussurrate dei ragazzi che bisbigliano da una cella all’altra cercando di farsi coraggio e di non impazzire.
Solo uno di loro, Pablo Diaz, uscirà vivo dall’esperienza, dopo aver scontato 4 anni con l’accusa di essere stato scoperto a distribuire volantini sovversivi, guarda caso proprio nel periodo in cui era già desaparecido… Probabilmente uno degli intenti del film è anche quello di tentare di dare una spiegazione della scelta caduta su Pablo: arrestato fuori dal gruppo e in una situazione successiva, per la logica poliziesca risulta defilato rispetto all’organizzazione e quindi non è pericoloso. “E’ stato deciso che tu viva, ti porteremo fuori di qui: a patto di dimenticare tutto quello che hai visto, tu non sei mai stato qui“: desapariciòn fisica, mentale, psicologica.
Nella cinematografia italiana ricordiamo invece gli altrettanto struggenti ed emozionanti film di Marco Bechis “Garage Olimpo” (1999) e “Hijos” (2001) che narra la storia dei figli dei desaparecidos, nati nei campi di concentramento e adottati illegalmente da famiglie di militari che non ne potevano avere.
Quei bambini sono oggi uomini e donne che non sanno di essere figli di desaparecidos, non sanno che le persone con cui sono cresciuti sono state molto spesso le responsabili dirette della morte dei loro veri genitori. Il film racconta la storia di due gemelli Rosa e Javier che vengono separati alla nascita grazie alla levatrice che per salvare almeno la piccola è costretta a fingere di aver fatto nascere il solo maschietto che viene rubato da una coppia di militari in procinto di trasferirsi in Italia. Vent’anni dopo, da Buenos Aires, Rosa inizia a cercare il fratello e riesce tramite internet a contattarlo a Milano dove decide di incontrarlo. I due ragazzi inizieranno ora a scoprirsi tra le paure di una e le diffidenze dell’altro.
Oltre al cinema anche la musica si è più volte ispirata al dramma dei desaparecidos e molti cantanti hanno tentato di rappresentare in musica e parole questa immane tragedia. Citiamo ad esempio Manu Chao e Sting tra gli interpreti stranieri con te le canzoni “Desaparecidos” e ” They dance alone” mentre in campo italiano ricordiamo i Nomadi con “Canzone per i desaparecidos” e Paola Turci con “Bambini”.
I mondiali del disonore.
Nel 1978 fu disputata in Argentina l’edizione più drammatica e infame dei campionati mondiali di calcio. Nonostante i governi di mezzo mondo e le autorità del calcio fossero al corrente dei crimini tremendi che venivano commessi nell’Argentina sotto la dittatura militare, venne fatta la scelta vile di recarsi ugualmente a disputare quella che doveva essere una grande festa sportiva per il mondo intero.
Disputare ugualmente quel torneo fu una grande occasione persa per emarginare un regime criminale e denunciare fatti di infinita gravità e si trasformò al contrario in un autentico regalo alla dittatura (e ai suoi protettori e padrini internazionali) che ebbero dal resto del mondo una sorta di riconoscimento formale del regime.
Anche grazie alla vittoria annunciata della squadra argentina strafavorita da arbitraggi e inganni, i campionati del mondo vennero usati da Videla e Massera per distogliere l’attenzione di un popolo terrorizzato dalla tragica realtà e per cercare di dare al mondo intero una immagine di normalità.
Ingenti furono i costi della manifestazione, il tutto “perché si diffondesse ai quattro venti il sorriso di un paese felice sotto la tutela dei militari” come riporta Eduardo Galeano. Ma contemporaneamente allo svolgersi del Mondiale continuavano i piani di sterminio delle alte cariche tanto che, proprio nel periodo della manifestazione calcistica, in Argentina la repressione toccò il suo culmine e con essa il numero dei rapimenti e degli assassinii.
In pratica i boati del tifo argentino ai goal di Mario Kempes nascondevano il rumore degli aerei della morte che sorvolavano gli stadi trasportando i desaparecidos pronti per essere gettati ancora vivi in mare
Ma le autorità non si curavano di questo e numerose furono le esternazioni di ringraziamento al regime militare. Il presidente della FIFA Havelange parlando davanti alle telecamere delle televisioni osservava: “Finalmente il mondo può vedere l’immagine vera dell’Argentina”. Henry Kissinger, ospite d’onore della manifestazione, dichiarava: “Questo paese ha un grande futuro, a tutti i livelli”.
L’unico gesto dignitoso lo compirono i giocatori olandesi sconfitti in finale dai padroni di casa: al momento di ricevere il trofeo si rifiutarono di salutare i capi della dittatura.
La chiesa cattolica
Al mantenimento del regime, fino al 1981 parteciparono generali, burocrati, grandi imprenditori, la Banca centrale argentina, perfino la Chiesa cattolica. Furono il nunzio apostolico Pio Laghi, l’ex presidente della Conferenza episcopale Raul Primatesta e altri vescovi a fornire al suo governo consigli su come gestire la situazione dei detenuti-desaparecidos. Secondo Videla la Chiesa si spinse a «offrire i suoi buoni uffici» affinché il governo informasse della morte dei figli tutte le famiglie che si fossero impegnate a smettere di protestare. È la prova che la Chiesa era a conoscenza dei crimini della dittatura militare, come risulta dai documenti segreti pubblicati in libri e articoli e la cui autenticità l’Episcopato è stato costretto a riconoscere dinanzi alla giustizia.
In quell’orgia di violenza pure la chiesa finì travolta nella barbarie, vivendo la più grande crisi che l’abbia mai lambita. Ma, al di là di ogni vulgata, sarebbe errato assegnarle un ruolo soltanto. Fin dalla creazione dello Stato, e ancor più dagli anni d’oro di Peron (1946-1955), il cattolicesimo impregna ogni aspetto della vita del Paese; e là dove tutto è cattolico – ha scritto Loris Zanatta – la Chiesa finì «per interpretare tutti i ruoli: benedisse militari e crebbe guerriglieri, protesse operai e confessò industriali, invocò il Cristo rivoluzionario e il Dio antisovversivo».
Basta uno sguardo, dunque, per cogliere nel corpo ecclesiale tutto e il contrario di tutto.
C’è il vicario castrense Adolfo Tortolo, intimo dei militari, che intende il proceso come un’opera d’espiazione e c’è il suo clero, che – tra infiltrazioni e delazioni – è largamente coinvolto nell’opera di repressione se non nella stessa logistica della violenza. Ma c’è anche il vescovo di La Rioja, Enrique Angelelli, impegnato a fianco dei più poveri, che denuncia la violenza dei militari e che finisce assassinato in un incidente d’auto simulato. Ci sono vescovi che, in nome d’una lunga consuetudine tra Chiesa e forze armate, non concepiscono neppure l’idea di giungere a uno scontro con la junta, ora approvandone i metodi – d’altronde, se i nemici dell’Argentina (ovvero dei militari) «stanno col demonio… devono pagare le conseguenze» – ora cercando di utilizzare quell’antica familiarità per tentare di moderarli.
C’è la Conferenza episcopale argentina, spaccata a metà e incapace di produrre un documento di condanna del regime, ma solo pagine annacquate dagli estenuanti compromessi su cui si attesta per non spaccarsi. E ci sono gli ordini religiosi, dai Gesuiti che il provinciale Jorge Mario Bergoglio sta faticosamente tentando di riportare all’unità dopo la grande sbornia del connubio tra fede e rivoluzione, ai Pallottini colpiti perché accusati di essere «terzomondisti» e «avvelenatori» della gioventù argentina, fino ai Piccoli fratelli del Vangelo, la cui Congregazione viene completamente annientata per la sua vicinanza agli ultimi della terra.
Infine c’è Pio Laghi, il nunzio inviato da Paolo VI in Argentina, che parte nutrendo qualche fiducia nel regime, giunge presto ad avversarlo, barcamenandosi tra leader politici che professano una cattolicità del tutto sorda ai richiami romani, una Chiesa che non può prendere posizione se non acuendo le proprie fratture, un clero rivoluzionario che va ricondotto all’obbedienza e uno tradizionalista che non va spinto tra le braccia di Lefebvre. Il risultato finale non può che essere un miscuglio di diplomazia e coraggio, paura e silenzi, omissioni e partecipazioni alla violenza.
Nel 2000, anche la Chiesa argentina – primate Bergoglio – è giunta a confessare le proprie colpe riguardanti «la violenza guerrigliera e la repressione illegittima che hanno messo a lutto la nostra patria» e a chiedere perdono «per i silenzi responsabili e per la partecipazione effettiva di molti dei tuoi figli a una situazione di così grave scontro politico, all’oltraggio alle libertà, alla tortura e alla delazione, alla persecuzione politica e all’intransigenza ideologica, alle lotte e alle guerre e alla morte assurda che hanno insanguinato il nostro Paese».
In quanto ai sospetti di vicinanza tra Bergoglio e la junta emersi dopo il conclave del 2013, hanno ricevuto documentate e sufficienti smentite.
(Testo prodotto facendo riferimento agli articoli di Daniele Bellucci, Roberto Rippa, Marco Chiani,Simona Balocco e Paola Maggiora, Francesco Carucci, Alberto Guasco)